La verità impronunciabile. Il silenzio della letteratura
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di Francesca Vennarucci
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Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna. […]
[…] Ahi, per la via
odo non lunge il solitario canto
dell’artigian, che riede a tarda notte,
dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
e fieramente mi si stringe il core,
a pensar come tutto al mondo passa,
e quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
il dì festivo, e al festivo il giorno
volgar succede, e se ne porta il tempo
ogni umano accidente. Or dov’è il suono
di que’ popoli antichi? Or dov’è il grido
de’ nostri avi famosi, e il grande impero
di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
che n’andò per la terra e l’oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
il mondo, e più di lor non si ragiona.
[…]
(da La sera del dì di festa, di Giacomo Leopardi)
Dopo una giornata di festa, animata da suoni, grida, fragori, solo il canto dell’artigiano che torna a casa squarcia la profondissima quiete della notte. La coltre del silenzio già posa, densa e tangibile, sopra i campi e in mezzo agli orti, avvolge le cose nell’oblio, cancella le voci del giorno respingendole in una dimensione irreale, dolorosa. Solo il canto notturno che a poco a poco si allontana ripopola il silenzio di voci, di grida, ma è un attimo: la luce uniforme e silenziosa della luna riprende a posare su tutto il mondo, lasciando lo sguardo dell’osservatore a vagare lontano e il suo animo in subbuglio. E’ possibile notare immediatamente come la costruzione di questa poesia poggi su un’opposizione dialettica: nel silenzio della notte apparentemente quieta, inondata dalla chiarezza lunare, il canto dell’artigiano ha il potere di evocare, non solo le voci del giorno appena trascorso, ma tutte le voci del mondo, le voci di un passato rumorosissimo eppure inghiottito dal silenzio del Tempo.